Graffiti e writing

"All'inizio [...] era così, un hobby. Ma poi è diventato qualcosa di cui non potevo fare a meno, oramai fa parte di me. Dipingerò tutta la vita. Fare i graffiti ormai è parte di me."

Intervista a Jeos

«Mi chiamo Giacomo Ceccagno, sono nato nel 1978 a Camposampiero (PD), dipingo dal ’94, vivo e lavoro a Padova. Sono diplomato come Grafico Pubblicitario all’istituto Valle di Padova e laureato all’Accademia delle Belle Arti di Venezia. Ho esposto al MI ART a Milano e in varie altre gallerie d’arte. Provo a vivere con l’arte o con quello che ci sta attorno».

Quando e come hai cominciato a dipingere?
Per il mio quindicesimo compleanno i miei amici mi hanno regalato 10 bombolette…, era un mio desiderio da tempo fare un graffito. Poi ho conosciuto Cinco, e assieme abbiamo fatto un muretto a Voltabarozzo (PD). Eravamo in 5 o 6 per un muro veramente minuscolo e una scrittina che si poteva fare tranquillamente anche di giorno, ma era la prima volta…
Poi abbiamo cominciato a dipingere al CSO Pedro, perché era l’unico spazio che lo permettesse…

Parlami dell’evoluzione del tuo stile e del tuo nome. Perché l’hai scelto?
In quegli anni andava molto assemblare e fondere un puppet (una figura) alle lettere. E io poi all’inizio facevo sempre scritte, mai il mio nome, e cioè “Crimine”, “Get Into Trouble”, “Spot”, “Unico Responsabile”, “Jungle”, cose così… non pensavo ancora al nome…

Quindi era una cosa più comunicativa, con un messaggio da dare specifico?
Si, anche perché comunque dovevo ancora capire tante regole che al tempo nel ’94, non c’erano. Non c’era internet. C’era solo Aelle, che era l’unica fanzine in cui potevi vedere i graffiti. O andare nelle altre città e fare foto ai pezzi. O andare alle poche jam che stavano cominciando. A Padova il punto di ritrovo erano le banche, non solo per i graffiti, ma anche per la breakdance. Arrivava gente da tutto il Veneto e ci si conosceva là. E quindi vedevo pochi disegni di altri, facevo quello che mi sentivo… E poi ho cominciato a scrivere il mio nome, provare tanti stili e forme.
Il mio primo nome era Jeoos, con 2 o, che mi permetteva di integrare un elemento figurativo alle lettere. Ancora adesso sfrutto molto questa cosa. Poi mi sono ricavato uno stile mio, ma ci sono voluti molti anni. Adesso basta guardarsi internet o mille libri e fanzine sul writing, i ragazzi oggi partono da molto più avanti. E da una parte è un pregio dall’altra e una limitazione, perché le tue lettere non sono quasi mai pure, ma copiate dai grandi artisti.
Adesso io cerco di integrare lo sfondo alle lettere. Sono biolettere, direi. Sembrano molto o astronavicelle o cose biomeccaniche. Cerco di integrare lo dfondo alle lettere. Non mi interessa più mostrare la lettera in sé, lo studio della lettera, ma mi interessa molto di più la forma e l’armonia. Tante volte le mie lettere sono sparse per il pezzo, non sono in ordine, e possono solo esserci la S e la O. Non mi interessa più fare una costrizione per scrivere tutto il nome. Perché quando tu fai un graffito rappresenti te stesso, non solo con i colori che rappresentano il tuo stato d’animo, ma anche con le forme (per esempio se sei in un periodo più incazzato e teso, fai forme più rigide e spigolose, o invece se sei innamorato le fai più sciolte e armoniose). Per cui non mi interessa più esaltare il nome, ma la forma del mio stato d’animo in quel determinato momento. E se mi va di seguire le lettere le seguo, se no, non le seguo.

Cosa ti ha influenzato e ti influenza maggiormente nella tua ricerca?
Il concetto di evoluzione. Questa cosa dello stato d’animo. Perché ogni volta c’è uno stimolo diverso. Integrare il muro, il luogo sempre diverso e la condizione specifica circostante con il pezzo.

La tua famiglia come ha accolto questa tua passione?
I primi anni mi rompevano le scatole (mia madre soprattutto perché avevo tutti i vestiti sporchi). Non mi sono mai andati contro, ma mi dicevano di stare attento. Io dicevo loro di fare solo muri legali, anche se…
Adesso però ci penso due volte a fare un illegale, fare un treno è un grosso rischio, e se ti beccano a fare un treno, sono bei soldi che devi pagare…

E i tuoi amici?
Alla fine ho cambiato amici, perché con i miei vecchi amici di quartiere non avevo più nulla in comune, perché quello che mi interessava era dipingere, quindi volevo conoscere miei coetanei con cui condividere la mia passione. Ci siamo conosciuti io e te, Mote e gli altri. E quindi ho un ricordo dei miei amici del quartiere che ci salutiamo, ma… i miei veri amici sono quelli che dipingono. E questo è stato uno stimolo, perché io ho girato Sarmeola, Chiesanuova, Voltabarozzo, Guizza, Sacra Famiglia… per conoscere altra gente, mi muovevo sempre, ed è stato un pregio, mentre chi è restato in patronato a giocare a briscola e calcetto… Penso che sia servito e serva anche nella vita in generale, che ti faccia venire voglia di conoscere, di andare in giro.

Raccontami la storia della scena di Padova, dei suoi writers e delle sue crew. Oggi è cambiato qualcosa? Come si è evoluta la scena?
Quando ho iniziato nel ’94, a Padova vedevo già graffiti, c’era già l’EAD. C’erano Boogie. E gli altri. Da parte mia ho conosciuto Claudio (Cinco), solo che lui stava prendendo la strada della musica. Per un periodo mi sono bloccato. Dopodichè ho conosciuto Greg e Yama e abbiamo fondato una crew, la KSN, che significava Kontrasto Sul Nucleo, o Kontrasto Sul Nome, o Koglioni Senza Neuroni… era solo tirar fuori un nome, per fare gruppo, e basta. E in quegli anni ho conosciuto anche l’SPC (Cera, Mote, Radio, Nevo, Easy, Hope…), e si faceva un treno e un muro a settimana. Due pezzi a settimana. I treni nel weekend, e i muri erano sempre in cantiere (avevo anche cominciato a lavorare, per cui avevo più soldi da investire).
E quindi eravamo io Yama e Greg, e poi c’ero io che frequentavo anche l’SPC. L’SPC faceva bombing e un sacco di illegali. In quegli anni c’erano l’EAD e l’SPC, erano queste le due crew. Poi c’erano ragazzini di quartiere che si dilettavano. Ma era questa la scena. Poi con gli anni c’è stata la crew di Koy, Nibe e Taz, che facevano figurativi (e se la cavavano), l’FDM, e la crew di Mannaro, l’AGW, che tuttora è in attività. E poi c’era Hase, che dipingeva da solo. Poi la KSN si è sciolta, Yama è entrato in EAD, Greg per un po’ ha smesso, e io sono entrato in SPC, anche perché l’SPC aveva cominciato a fare anche legali, e ci si ritrovava assieme. Solo che il mio è uno stile completamente diverso dall’SPC, da Cera, Mote e Nevo, loro facevano lettere molto più “New York”, “traditional”, mentre io facevo 3D, spazio, spazialità, tutte ‘ste menate qua…
Ora come ora, io dipingo come singolo, non ho più… ma ci si ritrova sempre tutti assieme.

E se ti chiedono com’è la scena di Padova oggi?
Penso ci sia una qualità molto molto molto elevata di artisti, di writers. C’è stata una grossa evoluzione personale degli artisti, che hanno evoluto tanto le lettere.
Faccio un paragone: Milano e Padova. A Milano se ti vuoi far conoscere devi fare più pezzi di tutti. La competizione è nel numero, e la qualità è generalmente bassa. C’è tanto bombing, è tutto devastato di tag e throw up.
A Padova, dipingendo spesso legalmente, la competizione non è stata sulla quantità, ma sulla qualità. Su chi fa le lettere più belle. C’è stata una grossa evoluzione di stile, che ha portato a pochi writer (10-15), tutti con le proprie lettere cono uno stile già pronto, fatto, e tutti bravi e conosciuti, perché ti distingui rispetto a Milano, che di writer ce ne sono tantissimi, che però non emergono, perché quelli che emergono sono quelli che evolvono lo stile. Quindi tutti bravissimi, però ci si è focalizzati a migliorare le proprie lettere, e non a contestualizzare tutto l’insieme, le murate. Per esempio La Cremeria, che è una crew di Udine, in cui tutti sono mediamente bravi hanno curato sempre molto la contestualizzazione dei pezzi e l’armonia tra di loro. Questa è sempre stata una piccola carenza dei padovani, anche mia quindi. Per fare una murata figa bisogna lavorare tutti assieme. Solo da poco si sta cominciando a pensarci, come lo sfodo-cielo che è stato fatto all’ultimo Meeting of Style, ma in Germania o in Francia, le fanno già da anni…
Secondo me devi considerare la parete, non la lettera. Per quello che io adesso sto cercando di fare queste fusioni tra lettera e sfondo, perché più importante per me è lo sfondo: è per quello che non mi interessano più le lettere…

Perché dipingi?
All’inizio quando dipingevo, passavano i vecchietti a passeggiare e mi chiedevano «Perché lo fai?» e io gli rispondevo: «tu la domenica vai a pesca? Beh, ecco, io dipingo». Era così, un hobby. Ma poi è diventato qualcosa di cui non potevo fare a meno, oramai fa parte di me. Dipingerò tutta la vita. Fare i graffiti ormai è parte di me. Appena c’è un muro si va. Fa piacere, stai in compagnia. Però c’è una soglia a cui devi stare attento, che non diventi una malattia, una droga, nel senso… vedere solo quello. Anche perché comunque tu scrivi il tuo nome, e a livello psicologico… diventi maniaco. Un conto è fare il graffito perché ti piace, un conto è voler imporre il tuo nome e farlo ossessivamente ovunque. Per dire io ci sono, io esisto. E questo più per chi fa illegali… Poi nell’illegalità, c’è anche la questione che vai alla ricerca dell’adrenalina a un certo punto, hai bisogno di posti sempre più rischiosi e in cui hai meno tempo, più proprio come una droga. Alla fine il writing è come un tao, c’è il bianco e il nero, e nel bene c’è un po’ di male e nel male c’è un po’ di bene. Nel senso che c’è la parte legale e la parte illegale e in ognuna c’è un po’ dell’altra, e comunque tutte e due funzionano solo insieme.

Come vivi l’illegalità, insita nel dipingere?
Se c’è la serata che si ha voglia di andare a fare l’illegale si va. Ma secondo me non è illegale. Cioè, sai che è illegale per gli altri, ma in quel momento non pensi di fare un crimine o un reato, perché stai colorando, stai decorando. Non ti dico di andare a fare i monumenti, ma nel fare un sottopasso o in un muro in linea proprio non ci vedo il reato.

Cos’è per te il writing?
Con il writing disegni te stesso. Esprimi te stesso. Quando faccio i quadri e dipingo, non so, una strada, un semaforo, un grattacielo, vado a dipingere quel concetto, qualcosa che io voglio dire: un messaggio. Quando vado a fare un graffito esprimo solo me stesso, perché sono solo forme che ho in testa, non do un messaggio.

Quindi c’è o non c’è un messaggio che vuoi trasmettere con i tuoi pezzi?
Emano le mie sensazioni e basta.

Cosa vuol dire per te comunicare?
Comunicare è mandare un messaggio.

Che in questo caso sono le tue sensazioni…
No, perché non mi interessa più… Quando faccio un graffito non mando un messaggio a un’altra persona, perché sto disegnando solo me stesso…

Però lo stai mandando, nel momento in cui uno lo vede, per esempio…
Ma a me non interessa che gli altri lo vedano. Non lo so, non me la sono mai fatta questa domanda. Se il mio pezzo sembra un’astronavicella, non voglio mandare nessun messaggio, voglio solo sfogarmi e liberare le mie emozioni dentro. Se voglio mandare un messaggio ti dipingo la ruspa che distrugge un palazzo. L’evoluzione delle lettere in sé non manda messaggi.

Però è impossibile non mandare messaggi…
Si, beh, è che è una domanda che non mi sono mai posto. Quello che magari mi piace quando la gente vede i miei lavori è che ci vede dentro tante cose. Quando si sofferma a guardarli mi piace. Quando faccio i corsi per i bambini, gli faccio degli esercizi per soffermarsi a guardare. Con un graffito vedi ‘sta macchia, ‘ste botte di colore e non capisci. E in realtà se tu stai là 2 minuti in più a guardarlo, ci ricavi le lettere. Non so, quando disegno e vedo che la gente si sofferma e ci vede dentro l’astronavicella, il polipo, il cavallo, la mucca… il messaggio, non so dirtelo… Delle linea piacevoli… Ma non penso a un messaggio da comunicare. Il messaggio sono solo le mie emozioni, e basta. Nei quadri ti lancio un messaggio. Keith Haring è un messaggio dietro l’altro. Nel fare le lettere esce solo l’emozione che sto provando in quel momento. Quello a cui ora sto lavorando è questa cosa di integrare lo sfondo alle lettere, questa cosa di contestualizzare…

Cos’è per te l’Hip-Hop?
Io ascolto tutta la musica. Fa tutto parte. Sono miscele di stili in questa cultura chiamata Hip Hop che… Quando vedo un breaker io rimango incantato a guardarlo per ore, come penso sia lo stesso per un breaker quando vede un graffito: si sofferma. O quando ascolti un dj…
Quando si andava alle banche e ci si ritrovava tutti assieme, fai gruppo, ti senti una famiglia, perché condividi, ti senti al sicuro, condividi fratellanza. Per esempio abbiamo girato la Germania con Yama e Nex, arrivavi in un paese x, e sicuramente c’era qualcuno che condivideva il mondo hip hop come te e ti dava subito ospitalità. Ti fa molto ragionare questa cosa…

Cos’è per te l’arte? E che cos’è l’artista?
L’arte è tutto ciò che ci circonda. Nel senso, tu puoi guardare questo (un posacenere) e vederci arte. Tutto ciò che ci da sensazioni. L’artista è un attento osservatore. I critici decidono cosa è arte. Duchamp ha preso un gabinetto, l’ha tolto dal bagno e… Questa rottura che è stata fatta… Arte oramai è veramente tutto.

E la street-art?
È un ramo del writing, direi… Quando nasce il graffito negli anni 80 ha avuto tante ramificazioni, è stato usato anche come forma di protesta. La street art viene fuori dalla strada, si appropria di tutto ciò che è in strada e che viene fuori dalla strada. Non è cosi connessa con l’hip hop. Anche i materiali usati sono diversi… come le forme espressive.
Per esempio Banksy era stato criticato per essere troppo lento a fare i graffiti, per cui ha tirato fuori questo modo di dipingere (lo stencil) e adesso è il king dei king, è il top. E ha portato i suoi difetti in pregi.

C’è un antagonismo di fondo in quello che fai?
No.

Ci sono codici di comportamento, etici e artistici da seguire per essere un writers? Se si, come si imparano (e dove)?
I monumenti non si fanno. Un toy è uno che non sa queste cose e che magari disegna sopra un pezzo di uno più vecchio. Questo codice si impara per la strada, frequentando altri che come te condividono questa passione. Non essere un toy è anche una questione di coerenza. Di continuare.

C’è una sorta di affermazione dell’io in quello che fai? O è l’affermazione di qualcos’altro?
All’inizio, da ragazzo, vuoi fare il ribelle, affermare il tuo io. Ma è pericoloso. Uno spray è un’arma, una bomba a mano. Poi tutti cominciano a considerarti per quello che fai, e non per quello che sei. E invece bisogna capire la propria identità. Distinguere tra tag e persona. Sennò si rischia di diventare dei maniaci egocentrici.

Rapporti con i media, le istituzioni e le autorità.
Qui a Padova si può lavorare molto con le istituzioni. È quello il nostro vantaggio. Adesso Sgarbi che dice che i graffiti sono arte, magari è solo un modo per provare a fare prevenzione per le generazioni future… è più un gioco psicologico, una mediazione. Mentre a Padova, che abbiamo sempre lavorato molto con le istituzioni, puoi vedere veramente l’arte.

Quindi pensi sia positivo che il writing sia in qualche modo “istituzionalizzato”?
Si. Il fatto che sia istituzionalizzato permette una forte crescita dei writer, a livello artistico e anche una forma di prevenzione per le prossime generazioni. Poi è chiaro che se vuoi andare di notte a dipingere ci vai. E se le istituzioni ti aiutano è solo una possibilità in più che c’è per dare un messaggio positivo per questa forma d’arte. Qua a Padova non vedi bombing e devasto, proprio perché abbiamo sempre lavorato con le istituzioni, o comunque quando andavamo a dipingere di giorno, posti illegali, ci lasciavano fare, perché capivano che erano cose piacevoli, belle. Non andavamo a fare monumenti.

E il mercato? Cosa centra con il writing? È interessato?
È il discorso di prima. Si cerca di fare prevenzione come nelle grandi metropoli, che sono piene di bombing, si cerca di far emergere artisti o di spacciarli come artisti. Adesso c’è il boom: Telemarket (con i quadri di Verbo e Rae), PAC… c’era bisogno di avere una corrente, uno stile nuovo. Anche le multinazionali sono interessate (vedi Apple e Coca Cola). Il writing nasce anche come forma di protesta. C’è un’etica di fondo, almeno qua a Padova. Ma se vuoi soldi, fama e tutto il resto… Per esempio la coca Cola, la Nike e la Mac Donald, si sono presi i migliori writer e street artist e gli hanno fatto fare le campagne pubblicitarie. Ma Banksy ha sempre provocato le multinazionali, è sempre andato contro e criticato la società attuale. Quello che penso è che le multinazionali abbiano messo le mani avanti, pagando gli artisti per pararsi il culo dalle loro critiche. Perché, per esempio, uno come Banksy, che lo conoscono anche le nonnine, che è un provocatore che fa pensare... gente così fa più comodo averli dalla propria parte piuttosto che contro. E quindi c’è questo conflitto di interessi. Dopo è logico che se ti mettono davanti una valigetta di soldi, ci pensi due volte. Alcuni che conosco l’hanno rifiutato il contratto proposto da Telemarket… Devi valutare tu quello che vuoi… Per me comunque adesso il writing è diventato tanto una moda.

E le gallerie d’arte?
È uguale. È mercato.

C’è ostilità nei confronti di un writer da parte della gente?
No. Anche quando abbiamo dipinto in centro il 95% erano consensi.

Domanda x: ti senti più vandalo o artista?
È il discorso del Tao. Ci sono persone fiere di essere vandali. Altre no. Ma poi ci sono stati e ci sono i centri sociali che danno gli spazi per dipingere. E sono stati primi a farlo, prima delle istituzioni. C’è la possibilità di dipingere comunque. Per esempio noi siamo stati molto contenti di dipingere il CSO Pedro. È l’origine.
Per esempio, a Monaco, non vedi una firma in centro. Niente. Hanno regole molto rigide. Tutto è concentrato in una zona industriale, la Kult Fabrik, gestita da Loomit, completamente disegnata. È un misto di locali e fabbriche. Tutto è dipinto. Quella è una galleria. Ed è un modo per gestire il writing. Qualche giorno fa sentivo al telegiornale la proposta di vietare ai minori l’acquisto di spray… è da pazzi. Il proibizionismo non porta a niente. Se tu invece lasci uno spazio gestito da comunque un’istituzione… fai veramente una galleria a cielo aperto!

Come concili l’attività di writer a quella di cittadino/studente/lavoratore?
Bene o male lo faccio nel weekend. Ma ogni giorno quando passeggio per strada, un muro bianco mi parla. Lo vedo subito. Come vedo subito i disegni nuovi.

Cosa pensi ci sia di buono, e cosa di cattivo in una città come Padova? E in Italia?
A Padova c’è di buono che si può lavorare molto con le istituzioni. Senza imbrattare in giro. Di negativo invece c’è che non ci si muove tanto. Se uno inizia a fare stencil, tutti faranno stencil. Come Mote che ha iniziato a fare i loghetti, c’è stato un periodo in cui tutti li facevano… non c’è originalità nei messaggi che vuoi mandare. E poi che sono veramente pochi i writers, o chi lavora la struttura urbana, gli street artist.

Prediligi treni, muri, tele o pannelli?
Muri. Mi gratifica molto di più fare un muro.

Come si fa a dipingere un muro?
Gli spray sono appositi. Sono pastosi e collosi. Non sono spray da ferramenta. Costano dai 2 euro e mezzo ai 4 euro l’uno.
Il muro va preparato. Ci va una base di fondo. Un isolante. Poi servono le bombole. Una decina. La maggior parte delle volte serve un bozzetto su carta. Io parto a fare la traccia con un colore chiaro, per capire le forme. Dopo, con un colore scuro vado a confermare le linee che mi interessano. Poi faccio le campiture, riempio gli spazi e capisco dove vanno le luci e le ombre. Infine inizio a pulirlo, decorarlo, inserendo elementi nuovi…

Come si fa a dipingere un treno?
Il treno invece non ha bisogno di questa preparazione. Non c’è neanche il tempo. Quando andavamo negli anni novanta con l’SPC, tutti i treni italiani erano dipinti. E già al tempo in Germania, Ingilterra, Francia, e stava iniziando la Spagna, avevano iniziato politiche di repressione. E tutti treni nel resto d’Europa erano bianchi. Col tempo si sono adeguati e hanno iniziato a mettere delle pellicole che rivestono i vagoni. I writers andavano col taglierino e staccavano la pellicola per dipingere sulla lamiera. Comunque quello che so adesso è che ti rimettono direttamente l’adesivo sopra. Ormai adesso i pezzi sui treni hanno un solo giorno di vita. Alla fine ti resta solo la foto.

Quale sarà il futuro del Writing?
Non è vero che non ci può più essere evoluzione. Ci sarà sempre qualcosa di nuovo. Basta guardare la street art, o artisti come Banksy che tirano fuori sempre qualcosa di nuovo. O anche grazie al computer. Ci sarà sempre ricerca. Mentre nei libri di storia dell’arte ci sono periodi chiusi. Per esempio è stato etichettato l’apice del writing nel 1982, ma in realtà non è così. È arrivato in Europa, e qui si sono evoluti un sacco di stili nuovi. È un’evoluzione continua.

E quello di Padova?
A Padova ci troveremo anche da vecchi a dipingere.

Quindi continuerai ancora?
Certamente.

Cosa vuol dire per te essere hardcore?
Impegnarti, fare le cose col cuore. L’hardcore è il nocciolo duro. Le persone hardcore sono quelle che resistono, che ci credono. Il cuore, del movimento, della cultura, di qualsiasi cosa. Per me i punk sono hardcore.

Qualcosa che volevi dire, ma che non hai ancora detto?
Non mi piace vedere che l’hip hop è diventata una moda. A me vedere un tipo con le braghe larghissime, col cavallo alle ginocchia il cappellino rovescio, la maglia più larga della tua… sono proprio cose che mi urtano. Sono cose che ti fanno diventare come vogliono “loro”. Se fai così subisci l’hip hop, invece bisogna mettersi a farlo. Mi da fastidio chi lo vive passivamente. È una cultura che cerca di coinvolgerti. È un movimento che costruisce.

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